Anfibi

Delirio di DJ adolescente sotto effetto di acido salicilico

Hai presente quel tipo di raffreddore che ti prende profondo nel naso, e hai le mucose gonfie fino in gola e nelle orecchie, più un persistente gusto di muffa? Una roba che mi ha fatto pensare all’immagine di una salamandra; alla sua pelle nera con dei pallini rossi.

Io dentro, sono come un anfibio di fuori: la cosa sembra più spessa di una semplice idea. Mi viene da dire una sensazione, come di avere delle scaglie e di diventare più freddo, nonostante la febbre che mi arroventa. Quando mi va su di brutto, sento delle voci nella testa e mi compaiono delle facce in piano-sequenza. Bambini, vecchi, soprattutto donne, che così non ne vedi in giro: di una bellezza vitale, non come queste gatte morte che mi ciondolano intorno.

Le facce, nel delirio dei quaranta gradi mi si sventolano contro lanciandomi frasi che non capisco ma con voci che sembrano registrate in presa diretta sotto nel cortile o addirittura qui, vicino al collo. Ieri sono stato investito da una valanga di personaggi che sembravano scagliati dall’aldilà tipo a dirmi: “Sforzati di guarire, pirla!”
Le parole però quand’è così, non si capiscono bene; è più una mia paranoia, svalvolato come sono. Ma cosa vogliono questi da me? Adesso ricominciano! E difatti, sono in fiamme.

Il piumone è caduto in fondo al materasso e Joaquim ci dorme beato. La stanza è in un bordello. Sono tre giorni che mi alzo solo per pisciare e bere tazzoni di tè e aspirina. Ho cambiato un bel po’ di t-shirt e mutande. I libri e tutto il supporto cartaceo di cui dispongo, sono sversi in giro. Consegnare questo lavoro, è stato bastardissimo. È per questo, che sono a pezzi, più che dopo due notti sparate in fila a mixare, fino a giorno fondo.

Ho freddo, poi caldo. Dalla veneziana entra una luce tenue che sciacqua il soffitto. Dalla finestra si allunga fino al centro della stanza; ci sono pile di libri, l’impianto, computer tastiera effetti cazzi mazzi. Dietro, tra gli ingressi USB dell’hard disk e il vaso del benjamin che resiste a una fila di pidocchi che salgono verso un ciuffo secco, si è formato un grumo di cavi che la dice lunga sulle volte che ho smontato e rimontato. La situazione, dico, per ottimizzarla.

Le tipe che vengono qui, è il primo posto dove si mettono a pulire, cosa che mi manda piuttosto in bestia. Se proprio devono infognarsi con gli straccetti, vadano a pulire intorno allo scarico della doccia o lavino i piatti, che tanto ce n’è sempre un macello. E invece no, vanno a ficcarsi al centro del mio sistema. Come se uno ti apre la zip e poi mette una mano a frugare nei tuoi vasi arteriosi e dice no, così il sangue non circola per bene, sono da mettere a posto. Una passata con lo sciantekler, poi vai, diamo anche una sistematina all’andirivieni linfatico. Ma ti sembra una roba che ha un senso?

Sciatte. Mentre ti vedono rollare, fanno le evolute e parlano di musica in maniera più o meno onesta. Ti sembra quasi che qualcosa ci capiscano, ma magari è solo perché si sono fatte scopare da qualche DJ. Poi tu ti sei tirato qualche nota e quelle, mentre inizi a prenderti bene e a svisare, ti staccano i jack e li mettono nel portamatite; come può fare solo un’impiegata del catasto che conserva una clips, prima di buttare i fogli di una vecchia pratica.

Infatti, dimmi: se ne salva almeno una, che non sanno neanche riconoscere un ingresso analogico da uno digitale? Imparassero cose utili invece di mettere ordine. Sovente, amano prendere il grumo e osservarlo, passandoselo tra le mani con aria da perfette ‘problem solver’. Poi in un attimo sono lì a staccare gli alimentatori dalla ciabatta, rovistano, poi li passano uno a uno con la pezza intrisa di sgrassante. Io fin lì, le lascio fare, anche se a qualcuna auguro di fulminarsi, alla grande. Magari tento di distrarre la stronzata con qualsiasi mezzo, dovesse anche essere un’ipotesi di sesso. No, queste preferiscono finire il lavoretto per bene da brave piccole donnine. Ma questo, è un lavoro che non può finire mai. Siete delle Penelopi e non ci state nemmeno dentro! Penelope, era lei quella della tela o era la Sibilla? No, vero?

La Sibilla era quell’altra, adesso mi ricordo, la tipa dell’oracolo. In pratica, quando faceva le carte ai generali romani diceva una frase, ma con una virgola bastarda che se spostata prima o dopo, cambiava tutto il senso. Fai: alla vigilia di una guerra uno vuole sapere se gli andrà di culo o se finirà in un macello. Va dalla Sibilla e quella dice una cosa che vuole sempre dire la stessa cosa ma anche il contrario di quella cosa. Perciò uno: quello non saprà mai se vince o perde; due, rischia anche di fare la figura del coglione. Dimmi te! Se paghi una per farti le carte, ti aspetti non dico una risposta straseria, ma almeno una roba che ha un senso.

Mah, se ce l’hanno fatta studiare la stordita, forse ci serviva a qualcosa. O era solo per farci capire meglio la grammatica latina? Che tanto… Cioè, allora no, stavolta fammi capire. Adesso mi siedo e mi concentro, mi sta venendo una forza da quattro ruote motrici e finalmente forse capisco sta roba qua. Una pista tipo: Joaquim mangia il ciappi, virgola, volentieri. Oppure Joaquim mangia, virgola, il ciappi volentieri. No, così non funziona.

Di fatto, per come va da schifo la storia della gente, sono sicuro che la virgola è stata messa sempre al posto sbagliato. Oh, anche le mie, di virgole, ovvio. Questa faccenda comunque è l’unica consapevolezza che mi ha sconvolto in tutto il liceo.

Invece, la Sybilla, tipa di Wormix, quella sì che me la ricordo… Due caviglie… Portava scarpette basse di quelle che possono mettere solo le sgarze del nord, rotonde in punta come hanno le bambole di pezza di mia sorella Cri; ma già così, ti dico, era una roba da sballo senza senso. Esile e bianca come lo yogurt, magra ma senza vedere troppo l’osso: detesto certe caviglie da puledra… Sui polpacci aveva anche una leggera peluria chiarissima, quasi bianca, ma non dava fastidio. E poi pantaloni di tela, su per la gamba slanciata. Ma quello era il meno…

Non fosse stata la tipa del mio socio, me la sarei anche bersagliata. È l’unica che entrata qua, non ha tentato di srotolarmi i cavi. Peccato solo che usciva con il mio amico: troppo simpatica. Adesso non stanno più insieme, chissà la biondina, se è tornata in Danimarca.

Il cavo rosso del Fender fa un bel numero di anse, poi sdrammatizza verso la cassa. A ridosso della ciabatta nera invece i nodi sono imponenti insieme ai grumi del pelo di Joaquim. Ma a me va fin troppo bene. Vuol dire che la configurazione è perfetta e niente ci deve nuocere. Il che m’ inchioda all’interrogativo cruciale: cosa c’è di più importante nella mia vita, di quegli stramaledetti cavi? Non certo una fichetta che pretende di sistemare la mia egobiosfera, partendo proprio da lì. E allora vadano tutte lavarsi i cavi di casa loro. E quando deciderò di pulire, le chiamo tutt’ e tre messe insieme. Fanculo.

Sono a letto per un’influenza e stavolta mi costringo a starci, anche se mi sento una perfetta cozza, con tutte le cose che ho da fare. Mi tiro su le lenzuola per cercare di stare al caldo, come mi ripete a sfianco mia madre che chiama a palla dall’ufficio. Poi però mi divincolo, mi rigiro, provo a leggere qualcosa e le lenzuola mi vanno fin dietro ai piedi. Sono ruvide a righe verde salvia e grigio, e anche stropicciate, perché le lavo e le secco al punto smaK qui sotto insieme a valanghe di mutande e calzini. Prima le portavo a lei che le ficcava nella lavatrice dandomi dello stronzetto viziato e poi ogni volta me le restituiva profumate e piegate in otto. Adesso sembrano una palla di giornale e in più, ci ho sudato dentro anche una cifra di aspirine e un bel po’ di microbi schifosi.

Dormo, leggo, invento: tutto sul fouton. Mi piace vedere le cose a dieci centimetri da terra. Ti dà una prospettiva diversa. Per questo, amo furiosamente il mondo che si svincola da dietro computer televisori e impianti stereo. Quell’impatto dei fili che a terra diventano nodi, vita e poi passione.

Il mio sguardo sul mondo è basso. A contatto con il pavimento molte regole cambiano all’impazzata. Lì, per forza, si depositano i grovigli della vita, costretti a essere capiti. Non, messi a posto. È così che delle volte cerco il contatto con il legno del parquet, sdraiandomi pancia e schiena vicino al muso umido di Joaquim, l’unico complice della mia vita. Se sto male, ma proprio tanto, io e lui dormiamo insieme nella cuccia e io sento il suo battito. Respiriamo insieme; di tanto in tanto lui accelera, se sogna: chissà che cosa, poi. Cagne, schizzi di urina, insaccati. Tartufi? Lepri, fagiani, prati… Erba.

Ne avessi un po’ mi farei un tiro. Altro beverone di acido salicilico, invece. So che posso prenderne tante di queste pasticchette a effetto dash. Quando sono troppe, vomito, così stavolta mi passa questo gusto rancido da rettile che cerco di inghiottire con una salivazione che si sta facendo abbondante.

Toh, adesso sbavo dai lati della bocca: forse sto male davvero!
Termometro. Tra le chiappe, senza bluff. Aspetto il responso voltato su un fianco a occhi socchiusi. Un’ombra da dentro si avvicina. Più grande di tutte le faccine formato cammeo che prima scorrazzavano in qua, dritte dal centro della mia testa. È una grande faccia nera. Gli occhi sono in fuori e la mandibola quadrata fa come sorridere. Ha un collo largo e chiazze di ruggine.

Fuori piove, ma tanto. L’acqua gronda di stravento sul velux. Fra un po’ mi cola anche dentro, sempre nell’angolo dietro il piano cottura, boia di un temporale.
Sete. Strano, in un attimo mi scopro prono di fianco al frigo, col termometro ancora in uso. In un attimo mi trovo lì dove il rigagnolo sgocciola su un mucchietto di briciole e peli di cane.

La serpentina del frigo è piena di polvere e mi fa un po’ schifo anche se m’ ispira con quel vai e vieni così sempre uguale fino su in cima dove sono appoggiati sfilatini secchi e fette biscottate che trasumano giù dal cestino su una stuoietta a fiori pink e verde acido. Regalo del microbo sorella a Natale.

Percorro quella specie di strada di montagna sentendomi affaticato quando lo sguardo arranca su per le ultime curve. La schiena mi si deve inarcare e mi fa male, anche se sono un tipo piuttosto atletico. Solo fatica; nessuna emozione, fino a che incontro il cavo del fornetto. Lì sento già una certa enfasi, anche se siamo ben lontani dall’ingresso di una qualunque periferica USB.

Cranio in volteggio. Guardando verso la luce mi sembra tutto immenso. Forse sono morto. Si dice di provare una certa flessuosità, tipo trapassare i muri e volare sulle situazioni quando l’anima si scolla. Io invece mi sento piccolo, e decisamente sul chiatto. In alto, questo sì. Mi sembra di dominare tutta la situa dal piano cottura. Ehi, guarda! Molleggio sulla spugnetta gialla! Sballo da paura, questa è da raccontare al vermone Wormix, appena mi ripiglio. Mi sembra di scivolare verso la vasca piena dei piatti di tre giorni. Visti così, quella sopra non sembra nemmeno cracia, ma una deliziosa palude di fanghi termali.

Poesia cazzo, questa è poesia allo stato estremo. E se mi venisse da leccare via tutto? Qualcosa mi preme sul lato della mascella. Scena troppo splatter! Esce una striscia gialla di lingua bifida.

Tosta, anche questa roba che sto masticando… Sguincio come su uno skate ma sono nel piatto, in mezzo agli avanzi di pastasciutta, quella porcheria imbevuta di schiuma e resti di caffé di cui ora mi sto prendendo in maniera maialissima!

No, che non è febbre; e nemmeno sballo. Sono solo in una fase troppo creativa. Toh, guarda: adesso ridiscendo, è un attimo. No che non ridiscendo. Cioè sì discendo, ma in direzione dello scarico. Sembra che quell’odore di fognatura che alita da sotto mi risucchi attraverso muffa e avanzi bloccati nel salterello.

Oh, adesso abbiamo finito di scherzare porca puttana! Basta. Rivoglio la mia lingua rotonda, il mio mouse, le mie dita e il mio naso raffreddato!

Help, cliccatemi fuori da questa storia!

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