Fifì d’Arté

Un piccolo noir dai colori stravaganti

Brenno

Non era il solito rigagnolo rosso. Carminio o scarlatto. Sangue, insomma. No, l’avevano trovato riverso in una pozza di blu kline che disegnava un’aureola trapezioldale intorno al suo cranio grassoccio e glabro.
Era accartocciato ai piedi di un sofferto quattro per quattro, allegoria forse, della sua intera esistenza. Questa, almeno, la prima intuizione. Forse la sua vita doveva finire prima del completamento di quel requiem policromo. Così, senza senso e in una rigida smorfia. Nella sinistra il pennello, nella destra un calice spezzato: non c’erano tagli o ferite. Solo gocce di blu. Blu kline, e un retrogusto misto di anilina e vitigni del Friuli.

Brenno Filangieri aveva finito il suo affanno d’arte una mattina di livido sole nel suo studio; più luminosi del solito il grande muro che dava sul vicolo, i colori in crosta della tavolozza. Più luminoso tutto. Strano, perfino lui.

Dopo un urlo inginocchiato e strane litanie incomprensibili, Maya aveva chiamato aiuto. Sul balcone, con le mani nei capelli. Qualcuno aveva mandato una volante; poi sono arrivati i carabinieri, la polizia municipale, e una squadra mista di gente che si intralciava a vicenda, prolungando allo spasmo il tempo in cui uno si aspetterebbe una risposta. Non certo definitiva, ma almeno rassicurante.

Ora bisognava anche rintracciare Fifì, e dire a quel ragazzo ipersensibile che suo padre era… Ma era poi davvero morto? Non si era visto nessun medico legale. Sì, invece, e adesso arrivava anche l’ambulanza.

Il Brenno effettivamente era morto. Lo certificava nero su bianco un dottorino con il naso a punta. Decesso per arresto cardiaco sospetto. Ora si dovevano fare gli accertamenti al centro di medicina legale. Lo avevano imbrigliato, il cadavere, su un barellino stretto da cui sbordavano i suoi robusti avambracci.

Maya invocando santi e marie aveva abbandonato la sua salsa di guacamole nel frullatore e lasciato bruciacchiare le tortillas che lui esigeva con precisione per l’aperitivo. Quella precisione che stonava con tutto il resto, ma unico rito, sempre uguale in quel casino a tutti costi impartito dal copione di artista.

Era arrivata in quella casa dopo aver conosciuto Brenno sulle Ande. Nativa di una manciata di pietre antiche inerpicate in cima a un sentiero d’alta quota Maya, come le altre donne bambine di lassù, tesseva fili o lavorava ceste, dopo aver incrociato i suoi capelli in due lunghe trecce. Nere, come gli occhi a mandorla, furbetti e curiosi sotto la gran falda del cappello. Stava rannicchiata con le gambe sotto un feltro scuro che faceva da gonna masticando foglie giallognole, quelle stesse che usano i vecchi del villaggio per macinarle e farne medicine e, a volte, rimedi estremi. Sfilava lunghi tratti di rafia da rocchi rossi e verdi, per lavorarli insieme con gesti leggeri e precisi. Poi blu e giallo. Del cielo e del sole. E ancora rosso e verde: terra e sangue. Dalla sua terra, per ricordo ai pochi turisti che s’arrancavano fin lassù.

Brenno le si era precipitato vicino, esaltato dall’accostamento secco di quei colori inconciliabili con le sicurezze pastellate del suo entourage alto borghese – anzi, del tutto opposti e contrastanti, come i poli della vita. Una vita dalle tinte forti. Come la sua. Estrema, inerpicata, sospesa. Continuamente incerta. ‘Splendore irriverente’: l’aveva convinta così, portandosela in Italia, musa, in qualche modo, della sua ricerca cromatica e, tutto sommato, esistenziale.

E lei, si era trovata a incastrarsi nella vita di uno che l’aveva arruolata per questo, e con tanto di libretti; uno che però non voleva, imperterrito, farsi gestire niente da nessuno, se non sotto forma di fottutissime bicromie…Lei era diventata l’anti governante di un’ anti casa, dove tutto doveva essere, vivere e soprattutto rimanere fuori posto. E per giunta, in un disordine estetico e respingente.

“È in quel cozzare di energie odiosamente contrarie che tutto m’ispira”, pontificava il Brenno senza spazio di replica. Cosa ci faceva allora una domestica peruviana a fare tutto il contrario di quello che facevano le sue amiche? S’incontravano la domenica al cinema o per un frullato rosa a raccontarsi le paranoie delle loro annoiate datrici di lavoro. E lei? Aveva solo di che introiettarsi nel respiro angusto di quell’immenso open space e galleggiare nel magma isterico. Senza banfare e semmai anzi, sforzandosi di creare nuove antinomie.

Costretta a non dare un minimo accenno di regolarità all’avvicendarsi di giornate lente e, per lei, tremendamente frustranti, aveva perciò cercato di allevare Fifì, come un bambino per bene. Perlomeno, normale. “Fifì ha bisogno di una colazione, di una camera in ordine, di orari! Poverino, adesso che è anche senza più una mamma” Sì, questo della povera mamma poteva essere un argomento su cui fare leva o almeno, così le era sembrato. Ma no, nemmeno quello. “Nella vita uno deve saper esistere e cavarsela, dribblando l’ovvietà nell’ambiente al quale è stato predestinato – replicava Brenno – Io sono sopravvissuto a un’esistenza rassicurante e monotona. Lui imparerà a vivere nel mio casino. E se no, pazienza…”

Fifì lo si trovava addormentato dietro a una sedia, con magliette oversize del padre e tempera nei capelli, o a bersi una tazza di sapone liquido di Marsiglia e Nesquik. Era ancora vivo, o no? Bene e allora ce la si può fare. Poi ovvio, uno impara anche che il Nesquik è meglio con il latte.

Ad avercelo il latte, nel frigo! Oltre a sedano secco, acquaragia e pomata di gorgonzola…

E adesso il cucciolo, raggiunta un’età trentenne, aveva coniato una sua pregiata filosofia dell’essere, sublimando le più banali azioni quotidiane in piccoli, bastardi tableaux vivants. Aveva iniziato già da piccolo, sfottendo l’allegoria paterna del fiore di pesco, criptata dal Brenno in graffi di pallido rosa e lingue scure, gialle e rosse. Gli sembrava un’emerita stronzata. Un’altra tela da riempire a tutti i costi. Non c’era storia dietro. Allora, lui, che nella sua vita breve aveva ben più cose da raccontare, tipo una madre morta a vent’anni, si era messo lì, nella sua cameretta con puntiglio e precisione ‘malandrina’ fino a confezionare una scenografia su fondale di Lego e interventi misti. Per poi fotografarla.

Così, raccolti i petali del ciliegio giapponese nel parco, ci aveva messo un tot di escrementi di Carlito (l’anziano pappagallo di famiglia), prodotti in abbondanza tra frasi rauche tipo: “Ciao Fifì, ciao papà, ciao, ciao.” Poi, ancora una tazzina sporca, una piastrella scheggiata, un verme e un pezzo di dito colorato, che sbucavano dalla sinistra e dalla destra verso il centro dell’immagine. E click. Mancava solo la firma, in forma di graffito: Fifì

Brenno era fiero. Quella polaroid era il manifesto del talento del suo Filippo, appena respinto in terza elementare. Era un figlio d’arte. L’aveva ribattezzato: d’ora in avanti sarebbe stato Fifì d’Arté. L’unico degno erede del suo supremo caos. Ma lui Fifì, non si sentiva affatto lusingato, essendo una ben che minima porzione di quel progetto. Troppo liquido o, all’estremo, ingarbugliato e spigoloso. Anzi, il giovine a dirla tutta, in età adolescenziale era diventato fichetto, poi perfetto e infine, un quasi manager in antracite gessata alla Hugo Boss. Con saltuari sussulti di vita vera, sbranati di nascosto in uno scantinato.

Era proprio quella polaroid dei primi anni settanta, a capitare insieme a qualche documento e mozzicone, tra i primi referti della scientifica, per via di quel gusto vagamente paranoide. Noir. Era appuntata sul cavalletto del padre, insieme a una foto di Evelina: diciassette anni in calzettoni a righe e con un anoressico e oblungo pancione.

L’ispettore Corbelli era seduto sulla sedia girevole in finta pelle che era il ‘fulcro’ di Brenno, il suo osservatorio inerpicato. Barcollava pesante a destra e sinistra il poliziottone, cercando un equilibrio su quel moncone a vite che cigolava e non gli dava pace per concentrarsi in quel viavai contrariante d’ipotesi. I suoi uomini cercavano di mettersi in contatto con il giovane, sperso chissà in quale autentica manovra creativa.

La camera di Fifì… il suo ‘covo cretino’, come lo chiamava lui, era chiuso a chiave. Almeno lì si tentava, di nascosto, di concertare un ordine. Maya, molto malvolentieri aveva tirato fuori la sua chiave di servizio. Letto rifatto, armadio impeccabile. E nascosto in un angolo, un appendi pantaloni ‘moderno come di quelli che ci sono negli alberghi’, aveva commentato soddisfatta Maya, mostrando in rassegna una scrivania, un computer, tre file geometriche di CD. Il tutto, in un profumo di lavanda e spik e span. Si capiva subito che quello era il terreno in cui lei poteva dare il meglio.

“Certo però, che qui sembrerebbe di avere a che fare con una storia di doppia personalità…” tentava di abbozzare con voce ingolata l’appuntato, accompagnando l’ispettore nella cameretta con passi frenati. Tra ritagli delle solite foto infantil, liceal, velin, sportive, c’erano alcuni collages più ‘compositi’.

Le Fauve Fifì era il titolo di quella bacheca rigorosamente ‘fuori tema’. Ritagli di lettere in un costrutto di spirale, si esaltavano verso la mistica dell’anti artista. Dal nucleo: una B blu. Rimbrotti in ordine disperso, a srotolarsi in rimproveri metafisici, fino al lembo esterno. Blu anche la scritta: Bastard father.

Ci voleva uno psicologo. Un traduttore, forse no: era superfluo. Qui siamo di fronte a un ‘mostro delle villette’ con base operativa in un garage d’artista, si era detto l’appuntato Feliciano, frenando in una smorfia la sua furia indagatrice. Sembrava sì, una buona corrente, questa del figlio con il complesso del padre artista.

“Prendi i tanti figli d’arte: brutte copie, espressioni sciatte, fallimenti in carta carbone di abnormi talenti paterni. Ce n’è nel teatro, nel cinema, dappertutto. Sono piccoli stronzetti viziati con la strada spianata e una fottuta voglia di fallire”, ragionava ad alta voce l’ispettore, snocciolando volentieri la sua cultura da rotocalco.

Fifì, era altro e altrove. Forse realizzato, dopo aver compiuto il suo affresco finale. Una sorta di giudizio universale. E adesso gongolava all’idea di scrostare la sua casa e la sua vita. Aveva almeno un alibi? Maya scuoteva la testa in silenzio. A destra e sinistra, poi su e giù. Lo aveva o no, ‘sto cacchio di alibi? “Tortillas Signori? Gradite un aperitivo?”

Le indagini della scientifica avevano intanto individuato il contenuto del bicchiere. Vino del Friuli. Altri uomini dell’ispettore erano stati sguinzagliati a indagare se nelle cantine del produttore ci fossero elementi utili alle ricerche. Il risultato più avvincente individuava in una nobildonna e nei suoi vigneti una pista plausibile. Organizzava, Madame, mostre di artisti contemporanei e a taluni dedicava le etichette delle annate migliori. Forse, anche sussulti e gioie d’alcova.

“Forse c’è in ballo una storia di amori, gelosie, interessi, rivalità. Magari a livello internazionale. Gli americani vanno matti per il vino e l’arte. Qui c’è dietro una roba grossa. Galleristi, mafia delle aste e del mercato delle contraffazioni. Russia, Miami…” si era sbottonato l’appuntato.

“Calma, appuntato, calma. Mi trovi il figlio, per intanto.”

“Giallo e blu mescolati, che orrore. Il blu va bene col bianco, o col rosso – aveva bofonchiato intanto Maya, mentre adagiava un vassoio di tortillas bruciacchiate e guacamole, spingendo con il gomito un mucchio di scartoffie, pennelli secchi e tubetti stritolati. E cartine, e mozziconi, e gomme – da masticare e da matita. Tutto in là, poi giù dal tavolo. Sai come l’avrebbe fatto contento il diavolo di un Brenno con quel gesto liberatorio? E invece no, quando gli portava l’aperitivo, con lentezza scientifica sgombrava, meticolosa, un perimetro sufficiente e poi, gli versava il suo calice di ‘bianco’.

“Siamo in servizio, mi spiace – faticoso, resistere all’invito per la squadra dell’ispettore – Piuttosto… È questo il vino che serviva sempre alla vittima?”

“Dipende. Lo comprava lui in bottiglieria qua sotto. Ma sempre… giallo. Cioè, diciamo bianco.”

“Scusi, signora, ma cos’era quella storia del blu e giallo di cui accennava prima?” “Niente, non so.”

Maya invece sì che pensava. Pensava invasata al giallo del sole e al blu del cielo che potevano coesistere solo sulla Cordigliera delle Ande. O tutt’al più in uno dei suoi ponchos. Altrove, era eresia. Su quel quadro poi… Intanto si aggiustava la treccia, da cui si era sfilata una ciocca che se ne andava per i fatti suoi, nel trambusto generale.

 

Fifì

Parigi, la Défense. Ore 3,00. Fifì palpita in pieno ménage d’artiste, in uno scantinato nel sottosuolo della città satellite, insieme a un gruppo di analoghi. Il progetto ‘interdisciplinary heal scream’ prevede la replica, in forma di happening irriverente, dell’opera omnia genitoriale. È un modo per bastonare la frustrazione, trasformarla in energia positiva, dicono.

E allora vai, con l’offesa liberatoria!

La solita tedesca va pesante di motosega e ossa di vitelli in alta enfasi anti vegetariana. Landolfo, diserede di un carismatico mattatore di platee globali emette in voce strozzata rime di banale costrutto e moribondo incipit. Ogni tanto pigola e bestemmia. E lui, Fifì, duetta con schizzi di blu e polvere di spic e span. Ne risulta un insieme sporadicamente surreale, piuttosto disconnesso e furibondo. Poi, terminato il tableau vivant e congedati i pochi, raffinati spettatori, i tre escono e rivestiti di perfette grisaglie per tornare, la mattina dopo, a recitare nella city ruoli studiati in perfetta antitesi con la libertà creativa imposta per anni da genitori scentrati. Lei, a fare la PR per una società di licensing americana, Landolfo il tutor per manager in cerca di leadrship e lui, Filippo, il consulente finanziario per una società di assicurazioni on line.

Irreprensibili.

È nel suo ufficio che Filippo ha saputo della morte del babbo. Nulla, per ora, di quel blu che avrebbe potuto incastrare lui e gli altri, inchiodandoli a un’evidenza che poteva diventare accusa. Delle notti alla Défense non sapeva nessuno. Lui, peraltro, la data del decesso si trovava proprio lì. A schizzare le pareti del suo urlo blu. A vendicare un amore che adesso gli mancava per sempre e diventava singhiozzo.

“Come è successo? Un infarto? Ultimamente sembrava stanco. Povero cristo.” “No, si sospetta un crimine.”

L’arma del delitto in effetti non era stata trovata. Un pennello? Una bottiglia? Un cocktail di vino e solvente… preparato da chi? La scientifica non aveva ancora fatto ipotesi sensate. Arresto cardiaco. Tutto era fermo lì. Congelato. E allora perché pensare a un crimine? Certo, se a Fifì poteva essere capitato di ingurgitare sapone liquido di Marsiglia e Nesquik in quell’orrendo casino, a maggior ragione un anziano pittore – in questo caso l’artefice del caos primario – nella vaghezza della creazione o in ebbra attesa, può aver bevuto ben di peggio. E se vogliamo, sarebbe stata la giusta retribuzione karmica.

Se una giustizia esiste…

Quello che dava da pensare era la perfetta composizione scenografica del delitto che evocava le trame di antichi mandala. Il cadavere del Brenno disegnava con la sua posizione in perfetta quadratura rispetto alla tela, una geometria euclidea e, i colori che incorniciavano la scena, erano quelli che lui prediligeva. Dalla camicia verde oliva, alla nuance bruna del pavimento, fino alla canizie delle sue basette che risaltava sul blu. Ma questo era visibile solo a un occhio educato a canoni superiori di estetica.

Lo intuì, strano a dirsi, Feliciano, giovane e promettente tirapiedi dell’ispettore. Un outsider piuttosto invidiato, ma tutto sommato ‘preso bene’. Un puro. Salito su una scala da imbianchino per fotografare la scena dall’alto per completare le ‘manovre’ di anamnesi del crimine, era rimasto abbastanza…

“Mi perdoni il gioco di parole, Ispettore… proprio qui in casa d’artista… ma c’è da rimanere ‘di stucco’!” Ne aveva visti di morti ammazzati, ma una coreografia come quella… È che non riusciva a dare costrutto razionale a quell’intuizione.

“Come, Feliciano?”
“Ma no, da qui sopra lo spazio sembra , non so come dire… armonioso.”
“Sì, proprio in questo casino… Quante balle! Adesso scatta in fretta così torniamo in centrale.”
“Comandi. Ispettore!”

Perciò sceso dalla scala con la sua istantanea, si era deciso riprendere la ricerca di indizi più ‘poliziescamente coerenti’ e, in un attimo, era ripreso il fastidioso crocevia di telefonate e andirivieni per costruire una pista più verosimile: “La marchesa ‘arte e vino’?” No, lei era a Berlino per una collettiva di artisti in veste di super sponsor. Alibi di ferro.

Poi, nel giro di dieci minuti erano tutti fuori. E il silenzio adesso sembrava irreale come l’affanno che ora esalava via, antico. Come il fresco oltre i tremila metri in un villaggio Inca dove si dà l’addio ai moribondi con un aiuto sacro. Un amaro di erbe e foglie gialle, a sancire il viaggio estremo già cominciato con l’affanno degli ultimi respiri, utili ad assorbire la pozione in ogni fibra. Bacche varie, forse anche curaro, in dosi sapientemente calibrate e assimilate per essere certi della fine: Maya se l’era portato con sé. Porzione unica, spiegando al suo Fifì cosa fare nel caso lei si fosse trovata in fin di vita.

Ora non restava che una macchia blu per terra e sopra, un luminoso silenzio. Riempito solo da una sequenza di lievi e garbati rumori: un calice posato sul tavolo, il rimbrotto del cavatappi e un lungo, beato sospiro. Poi, è cascata di vinello gorgogliante. Bianco, con tutta probabilità.

(Per il concorso letterario Tiro Rapido Porsche – 911 minuti per scrivere un racconto giallo – maggio 2005)

Opera tutelata su www.patamu.com con numero deposito 47539

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